Le Colonne d’Ercole

Prefazione di Elisabetta Selmi

 

Mito e memoria, il ritorno al “paese innocente, fissato nella trasparenza e nell’immutabilità di ipnotiche immagini equoree, e l’alto volo di una fantasia ultima sfida di un io lirico, “antico e sempre nuovo”, che anela alla totalità di destini non bloccati nel grigio rincorrersi delle abitudini, nei frammenti dolorosi di un passato che si vorrebbe finalmente decantare, chiudere nella serena accettazione del riconoscimento liberatorio delle mille altre possibile vite ancora percorribili: queste le moderne “colonne d’Ercole” assurte a cifra segreta ed evocativa della raccolta, piccolo “libro di ore” in cui si rinnova la perenne sapienza di una mai dimenticata “fiaba mitica”, personalmente rivissuta.

La voce orfica del mito risuona da lontano, dalle trasognate letture della giovinezza, dal fascino misterioso di antiche storie senza tempo, incise nel codice genetico di una memoria classicistica che l’autore percepisce ancora come saldo ancoraggio di un sé post-moderno non ripiegato nel chiuso solipsismo di un’esperienza individuale. Un sé che nella “rigogliosa inassorbenza” del tempo, di un immemoriale e gratuito ripetersi delle stagioni dell’indifferenza, nella vertigine di una ferita inferta nell’anima del mondo vuol farsi “memoria di dolori e di paure /di colpe e di riscatti”: io sacrificale, offerta votiva e riparatrice di un’eterna liturgia scolpita ab imo nella coscienza perduta dell’uomo occidentale; come un’antica fenice stanca di rinascere nel monotono nulla di un’esistenza prevedibile, disposta all’ultima, suprema consapevolezza nell’autodeterminazione di un “destino instabile”, di una pienezza di attese e di passioni che è pavesianamente coscienza del limite. Ben lo ricordava la Calipso dei Dialoghi con Leucò, nel tragico risveglio di un’illusione amorosa che è vita e tensione che irrompe nel sopore di un’eternità sempre uguale, nel “vuoto di istanti” in cui nulla più “c’è da rimpiangere”.

Nella filigrana preziosa di autobiografiche figurazioni mitiche, l’io del poeta alla ricerca della trama sepolta dei “fili che il tempo ha perduto” si racconta nello specchio rovesciato di altre usurate presenze, di miti, per così dire, scarnificati “alla lettera”, nei significanti resi familiari da ininterrotte consuetudini: “sui confini dello stagno”, nell’epifania di un tragico dissolversi dei fantasmi della vita, l’anti-Narciso moderno si tratterrà dal cadere nel baratro voluttuoso del nulla, aggrappato alla dolorosa scoperta di “sentimenti delusi” o “d’invincibili vitali pulsioni”. Come un ultimo letteratissimo Orfeo, epigono di una galleria infinita e affabulante di repliche tragiche, di inabissamenti memoriali, di autocoscienti variazioni, l’autore cercherà, anche lui, il suo descensus verso le ombre di un passato irrisolto, invadente e assoluto nell’eccedenza tumultuosa di un confuso “sentimento del tempo” dove il “futuro è già vissuto mille volte”: un passato che si vorrebbe racchiudere, esorcizzandolo, nello scrigno smemorante di un dorato e rarefatto ricordo infantile, che risponde al richiamo ancestrale di un mitico grembo marino. L’io lirico intona ancora una volta  l’elegia di amore e di morte di Orfeo, non dimentico delle infinite varianti del mito nel dialogo allusivo con quel pessimismo esistenziale rovesciato nella trafila di voci, da Rilke a Pavese all’ultimo Bufalino, nella parodia moderna che ne stravolge il finale: sotto il segno del lutto e della perdita consapevolmente decisi dal tracio cantore, nell’ormai conosciuta irreversibilità del destino di morte. Conoscere non è altro in fondo che perdere e perdersi.

Quel “pensiero consapevole”, riflesso di una disillusa contemporaneità, diviene invece per il Funari, “larva assetata di vita”, rivelazione profonda della verità e dell’archetipicità classica e universale del mito, nella  vittoria sulla morte del canto, della poesia eternatrice, trascendente quella stessa assenza che ne costituiva l’antifrastica vitalissima linfa: una verità trasposta nello stampo domestico di un rito quotidiano proteso su una sognata pienezza amorosa, officiato da un Orfeo adulto che “non si volterà” e “che non avrà paura” di ritrovare Euridice. 

In un leopardiano deserto della vita, anche l’immagine, evocata dalle telluriche radici dei miti originari, di quei sopravvissuti allo scelus del mondo, Deucalione e Pirra, destinati alla tragica responsabilità di una  rigenerazione dal nulla, si presta alla cifra autobiografica di un ultimo disperato canto d’amore, che ricama sul velo policromo delle rispondenze mitiche, nel grumo di antiche risonanze dolorose, la memoria di strappi infiniti e sperate rinascite.           

La silloge rinnova sapientemente l’idea antica del prosimetrum, nel corredo di un autocommento teso a fare del mito un segno culturale sempre vivo, un linguaggio comunicativo unico e “popolare”,  nella sua oralità senza tempo in cui si deposita il segreto di una scrittura perenne.

La raccolta ha i suoi “ditirambi”, quelle poesie pilastro che orchestrano i segmenti narrativi e simbolici di una mitica interrogazione esistenziale ed anamnestica – il colloquio mai concluso con il padre, la riflessione metapoietica con la Musa elegiaca, il dialogo muto con le Parche,  l’inno d’amore e di laceranti ferite, scaturigine stessa post-romantica di una mai dimessa voce apollinea – riscritta nel figurante archetipico più universale: quello della navigazione ulissiaca.


Elisabetta Selmi

Brescia


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